Un’antica benedizione. La celebrazione di una duplice vittoria. La costruzione, lo spopolamento, l’abbandono. La parabola ascendente e, subito dopo, discendente, di Fatehpur Sikri, uno dei luoghi più affascinanti dell’impero Moghul…
1567 circa. L’imperatore Akbar, disperato per la mancanza di eredi maschi al trono, decide di recarsi a Sikri e chiedere l’aiuto e la benedizione di Salim Chishti, santo dedito al sufismo, dimensione mistica dell’Islam.
Due anni dopo, tra la sorpresa e lo stupore generale, vede la luce il piccolo Salim, futuro imperatore Jahangir, chiamato così proprio in onore del santo!

Rinvigorito dalla nascita del figlio e colmo di gratitudine, Akbar decide di edificare, proprio sulla collina dove viveva il santo Salim e dove era stata annunciata la nascita dell’erede, una grandiosa città , nuova sede della capitale imperiale, a testimonianza della grandezza dell’impero Moghul!
LA COSTRUZIONE, LO SPLENDORE E IL DECLINO
I lavori di edificazione della città iniziarono nel 1570, nemmeno due anni dopo la nascita dell’erede al trono.
Gli edifici prendevano forma molto velocemente, blocco su blocco di arenaria rossa del colore del cielo al tramonto…
La successiva conquista della regione del Gujarat per opera di Akbar, nel 1573, fece sì che la nuova capitale prendesse, a celebrazione della vittoriosa campagna militare, il nome di Fatehpur Sikri, letteralmente “Città della Vittoria”.
L’afflusso di abili artigiani dai nuovi territori conquistati fece in modo che il palazzo imperiale, la moschea e i primi edifici della neonata città vennero completati a tempo di record!

Il centro del potere Moghul venne così trasferito dalla vicina Agra a Fatehpur Sikri, insieme a tutta la corte imperiale.
Ma i fasti della nuova città durarono ben poco…
Correva l’anno 1585. Nemmeno dieci anni dopo il completamento, la nuova capitale venne improvvisamente abbandonata, ufficialmente per la mancanza d’acqua, ma più probabilmente per mantenere la corte imperiale vicino all’esercito, impegnato in battaglie nel nord dell’India.
Da allora, la città della Vittoria si è trasformata in un dedalo di stanze, corridoi, terrazze e saloni brutalmente deserti.
Quattrocento anni di abbandono e oblio la separano da noi. Quattro secoli che si sentono tutti, pesantemente depositati negli angoli delle pareti, nelle fessure tra le lastre della pavimentazione…
Esplorate insieme a noi i meandri di questo luogo surreale, fuori dal tempo, dove tutto sembra solidificarsi in un eterno immobilismo.

DENTRO IL PALAZZO
Nuvoloni carichi di pioggia
offuscano il Sole calante.
Il vento, muto testimone di storie lontane,
sibila tra le colonne,
tra gli spazi mortalmente immobili.
Il silenzio non è più il padrone del palazzo!
Accorrete, venite ad ammirare il risveglio
della Città della Vittoria!
La prima impressione che si prova entrando all’interno di Fatehpur Sikri è uno sconfinato senso di vuoto, di mancanza, di incompletezza.
Come se ai palazzi, alle sale, ai giardini, ai terrazzi, mancassero i propri abitanti. Quegli abitanti che ne hanno vissuto la quotidianità per troppo poco tempo.
Sembra quasi tutto nuovo, intonso, come se gli edifici non fossero abbandonati da oltre quattro secoli, ma anzi, stiano solo attendendo di essere riempiti, arredati, animati.
La stessa sensazione che provereste entrando in un appartamento nuovo, ma senza nulla al suo interno.



Il Diwan-i-Aam, da un lato e dall’altro.
Elaborato padiglione destinato alle udienze, l’imperatore e la corte vi accedevano direttamente dalle residenze imperiali, mentre i sudditi rimanevano all’esterno, nell’impressionante quadriportico impreziosito da un verdeggiante giardino.
E pensate che siamo solo all’inizio, le vere meraviglie ci attendono oltre il porticato…
I PADIGLIONI IMPERIALI

Ciò che si prova vagando nel dedalo di viali, corridoi, stanze, sale e cortili di Fatehpur Sikri è difficilmente descrivibile.
Difficile immaginare che questi enormi spazi così vuoti, così solitari, forse anche austeri, potessero ospitare una vivace vita di corte, seppur per pochi anni.
Eppure, eccoci qua, di fronte alla Khwabgah e alla sua misteriosa piscina dalle verdi acque, Anoop Talao…
Qui viveva l’imperatore, circondato da esili ma aggraziate colonne di arenaria, avvolto da morbidi drappeggi ormai scomparsi. Al loro posto spazi vuoti, finestre sulla desolazione, meste cornici di una penombra senza tempo.


PANCH MAHAL
E poi il Panch Mahal. Il palazzo a cinque livelli. Meraviglioso padiglione sede dello zenana, il quartiere femminile.
Qui, nascoste da delicatissimi schermi di pietra ormai scomparsi, i jali, le consorti di Akbar potevano osservare la vita di corte al riparo da sguardi indiscreti, godendosi un po’ di refrigerio e sollievo dalle calde serate estive.
L’affascinante struttura, ispirata a un tempio buddhista, si sviluppa su più piani, disposti asimmetricamente e di grandezza decrescente, sorretti da un totale di 176 colonne.
E qui risiede l’elemento più particolare del palazzo: ogni colonna è diversa e ha una decorazione particolare, che la caratterizza in maniera unica!
E in cima, a testimonianza della straordinaria apertura che Akbar aveva verso altre culture e tradizioni, trova posto un piccolo chhatri, elemento decorativo a cupola tipicamente hindu.


JODHA BAI MAHAL – UN DEDALO DI STANZE E CORRIDOI
Ci addentriamo ancora di più all’interno della antica capitale Moghul.
Nuvoloni carichi di pioggia minacciano di bagnare l’assetata arenaria, da oltre quattro secoli baciata dal cocente sole dell’Uttar Pradesh.
Ci rifugiamo entrando dallo spettacolare ingresso del Jodha Bai Mahal, il palazzo dedicato alla consorte più amata da Akbar: la principessa hindu Mariam-Uz-Zamani.
Sposata dall’imperatore come consacrazione dell’alleanza con il padre, la giovane divenne ben presto la preferita di Akbar. Amore che culminò con la nascita del primo erede maschio, Salim, come vi abbiamo già raccontato all’inizio dell’articolo.
L’affetto provato dal sovrano trasuda da ogni singolo blocco di arenaria impiegato nella costruzione. È perennemente impresso nello stile decorativo del palazzo, ricchissimo di elementi di richiamo dell’induismo.
Aggirandoci per il cortile centrale e le impressionanti stanze laterali, notiamo infatti un tempio hindu, ma anche tantissimi riferimenti al dio dell’amore, Lord Krishna, e innumerevoli motivi decorativi quali elefanti, cigni, pappagalli.
Un bellissimo esempio di come l’amore, anche in tempi antichi, era in grado di trascendere le barriere culturali, di lingua, di religione.

La pioggia è ormai caduta,
il Sole torna timidamente ad affacciarsi
sopra le cupole della Moschea.
Il vento non spira più
le lastre, i blocchi, le colonne
tornano in silenzio.
La città è pronta ad assopirsi nuovamente,
in attesa della prossima profezia.
IL BIRBAL PALACE E LE SCUDERIE
Usciamo nuovamente all’aria aperta. Davanti a noi, un grande cortile, delimitato dal muro di cinta, da un lato, e dall’impressionante parete del Jodha Bai Mahal dall’altro.
In fondo, sorge un’altra piccola costruzione interamente in arenaria. Due piani finemente decorati con elementi che ricordano un po’ l’arte hindu e un po’ l’arte moghul, come del resto abbiamo imparato ad apprezzare sinora.
Gli studiosi dibattono da lungo tempo circa la funzione di questo piccolo capolavoro: chi sostiene fosse la dimora di due delle consorti di Akbar, e chi invece ritiene fosse l’abitazione di Birbal, uno tra i ministri e consiglieri più fidati dell’imperatore, tanto importante da meritarsi un posto privilegiato all’interno della città della vittoria.
Indugiamo al di sotto del porticato dell’edificio, ammirando le impressionanti scuderie che si aprono di fronte a noi. Decine, forse centinaia di cavalli riposavano al di sotto di coperture decorate con semplicità , ma ugualmente spettacolari nel loro complesso.



LA MOSCHEA DELLA CITTÀ: JAMA MASJID
Vagabondando nei meandri delle residenze imperiali di Fatehpur Sikri, è impossibile non notare le cupole e i chhatri dell’impressionante Jama Masjid, che con la sua mole ci accompagna durante tutta la visita.
Pensate che la principale moschea di Delhi, realizzata da Shah Jahan, si ispira proprio a quella dell’antica capitale imperiale!
Ci avviciniamo a Badshahi Darwaza, la porta imperiale, quella orientale, rivolta verso le residenze di Akbar e della corte.
Siamo consapevoli della sacralità del luogo. Una delle moschee più importanti, visitate e sentite dell’India. Il luogo dove visse e morì il santo Sufi Salim Chishti.
Entriamo all’interno del vasto cortile centrale: alla nostra destra numerose tombe, davanti a noi la sala di preghiera, a sinistra la monumentale porta sud.

Tutto, o quasi, rigorosamente in arenaria. A eccezione del luogo forse più significativo di tutto il complesso, di tutta la città .
Lì dove la storia della Città della Vittoria ebbe inizio.
Il mausoleo di Salim Chishti, candido, lucente nel suo rivestimento di marmo makrana, dall’aspetto dell’avorio.
Delicatissimi e intricati jali celano allo sguardo il cenotafio del santo, circondato da splendide decorazioni e iscrizioni coraniche.


Osserviamo la vita scorrere intorno a noi in questo luogo così particolare, così lontano dal nostro immaginario.
Chi si immerge nella splendida vasca centrale dedicata alle abluzioni.
Chi spazza la pavimentazione del cortile.
Ma anche chi, semplicemente, cerca un po’ di riposo nella penombra delle hujra, le celle originariamente concepite come dormitori per i devoti.
Piccoli sprazzi di quotidianità , di normalità in un luogo che di normale, di ordinario, ha ben poco.
Il Sole si avvicina alla fine del suo percorso giornaliero, sparendo lentamente dietro l’orizzonte.
Intorno a noi, l’arenaria della moschea prende fuoco. Consapevole che, a breve, l’oscurità della notte prenderà il sopravvento, privandola di quel fascino con cui ci ha accolto.
Usciamo e riprendiamo le nostre scarpe all’ingresso, pronti a rituffarci nel caos del subcontinente indiano.


La Città della Vittoria ci ha regalato qualcosa di unico. Uno splendido esempio di unione, di commistione tra arti e culture di diverse genti, quella Moghul, quella iraniana, hindu, Gujarati. Un esempio durato, forse, troppo poco.
Ma abbastanza per rimanere impresso nei secoli a venire, nella rossa pietra di questo piccolo angolo d’India.