Crespi d’Adda. Provincia di Bergamo. Assopito sulle sponde del fiume Adda, sorge un angolo nascosto di mondo che racconta storie di lavoro, progresso e comunità. Scopriamolo insieme!
La brina scricchiola sotto i nostri piedi quando scendiamo dall’auto, infreddoliti, aspettando che il Sole faccia capolino sopra l’orizzonte.
Abbiamo sempre sentito parlare del villaggio operaio di Crespi d’Adda, uno dei siti patrimonio UNESCO della Lombardia. È lì, a 40 minuti di strada da casa nostra. Eppure, non ci eravamo mai andati prima.
Crespi d’Adda è un angolo di storia industriale, un luogo dove il lavoro e la vita di tutti i giorni si intrecciano in una comunità che fu creata alla fine del XIX secolo, per ospitare i lavoratori della filanda che lì sorgeva.
Il Cotonificio Crespi, in funzione dal 1878 al 2003, era il fulcro operativo attorno al quale ruotava la vita degli abitanti del paese. Nel periodo di massima occupazione, arrivò a ospitare addirittura quattromila tra operai, impiegati e dirigenti!
Intorno all’imponente ma elegante edificio della fabbrica, sorge tutto il resto: il villaggio operaio, le case e ville di capireparto e dirigenti, la clinica, i lavatoi, i bagni pubblici, lo spaccio alimentare, la chiesa, la scuola, le case del medico e del parroco, il cimitero.
Tutto a misura e portata d’uomo: chi viveva nel villaggio doveva sentirsi a casa, a suo agio sotto tutti i punti di vista, dotato di ogni comfort che all’epoca si potesse pensare.
In questo modo, poteva dedicarsi all’arte che, secondo gli ideali del fondatore, nobilita l’uomo: il lavoro.
IL BELVEDERE
Il primo impatto con il villaggio è, per noi, davvero emozionante. Ci affacciamo al belvedere, mentre la prima luce del giorno inizia timidamente a illuminare le facciate delle case.
Da qui, l’impianto urbanistico della cittadina è immediatamente evidente. Decine di case operaie a pianta quadrata, incoronate dai loro tetti in cotto e circondate da staccionate realizzate con materiali di recupero del cotonificio, sembrano in eterna attesa del risveglio della filanda.
Su di loro, le due impressionanti ciminiere fanno la guardia. Come se, abbandonato il loro scopo originario, volessero comunque continuare a essere utili per il villaggio.
Dal belvedere è anche possibile apprezzare, almeno in parte, la netta suddivisione che contraddistingue l’abitato. La parte orientale, dominata dalle casette e dalla zona residenziale, è nettamente contrapposta alla parte centrale, dedicata ai servizi comuni, e alla sezione industriale, dove giace ciò che rimane dell’impressionante fabbrica.
Poco distanti dal punto di osservazione, possiamo ammirare le abitazioni del medico e del parroco. Situate nella parte più alta del villaggio, volevano idealmente abbracciare l’intero abitato, fornendo ai cittadini immediato soccorso e aiuto in caso di bisogno.
IL LAVATOIO E LA CHIESA
Scendiamo verso le abitazioni degli operai, circondati dagli alberi di un meraviglioso vialetto di ciottoli.
In fondo, ecco comparire i primi edifici della parte comune di Crespi d’Adda. Seminascosto dalla vegetazione che ha ormai preso il sopravvento sulla struttura, riconosciamo il lavatoio del villaggio.
Costruito in modo da consentire a tutte le massaie di lavare i propri panni senza dover raggiungere ogni volta il fiume, al suo interno scorreva l’acqua riscaldata in fabbrica. Secondo le parole di Silvio Crespi, figlio del fondatore:
“il lavatoio pubblico risparmia alle donne di fare lunga strada col peso della biancheria sul dorso o sulle braccia per recarsi al fiume, e correre il rischio di lavare nelle sue acque impetuose“
Subito alle spalle del lavatoio e del “dopolavoro“, luogo ricreativo per la collettività, ecco sorgere l’inconfondibile sagoma della chiesa. Il centro di tutto, fulcro spirituale per la collettività, punto di aggregazione, di ritrovo, di comunità.
Copia pressoché esatta della Chiesa di Santa Maria in Piazza di Busto Arsizio, la chiesa del villaggio vuole rappresentare l’ideale collegamento tra la città natale della famiglia Crespi e la città che, di fatto, ne rappresentava l’ascesa ai vertici dell’imprenditoria industriale italiana.
Il candido marmo di Verona cinge, in un morbido abbraccio, la cupola ottagonale, stagliandosi contro l’azzurro del cielo che vuole idealmente raggiungere.
LA VILLA-CASTELLO DELLA FAMIGLIA CRESPI
Lasciamo la dimensione “spirituale” del villaggio per dirigerci verso qualcosa di ben più concreto. Un edificio che ha attirato la nostra attenzione fin da subito, qualcosa di totalmente estraneo al resto dell’architettura dell’abitato. Un… castello?!
Situata sullo stesso asse dell’edificio di culto, a rappresentanza simbolica del “potere temporale” e terreno, contrapposto a quello spirituale della chiesa, sorge la villa della famiglia Crespi.
Un vero e proprio maniero, austero, imponente. Una testimonianza del potere economico della famiglia, una sorta di “Castello dell’Innominato”, che sorveglia il proprio villaggio, il proprio feudo.
Scriveva Tullo Massarani, a proposito del castello:
“chiedete al primo fanciullo che passa, e vi dirà che quello è il palazzo del Scior, del padrone, in altro linguaggio; del Deus ex-machina, da cui pendono […] le sorti di tutta questa numerosa brigata, quasi due migliaia, di ben assestati e provvisti lavoratori.“
Osservandolo, non possiamo fare a meno di esserne, quasi magneticamente, attratti. La merlatura ghibellina e le torri di stampo medievale fanno da coronamento all’edificio, quasi mascherandone l’abbandono.
Un abbandono che, però, non sa di decadenza. Tutto sembra perfettamente, eternamente immobile: le imposte chiuse, quasi a celare un mondo precluso al resto del villaggio, sembrano però pronte a ridare vita al castello, assopito insieme alla fabbrica cui deve il suo splendore.
Il Sole filtra tra i merli della villa mentre iniziamo a dirigerci verso il vecchio cotonificio, non prima, però, di aver fotografato uno dei tantissimi e simpatici gatti che popolano il villaggio.
IL COTONIFICIO, ANTICO MOTORE DEL VILLAGGIO
La svettante ciminiera dell’opificio è la prima cosa che vediamo quando percorriamo la strada che da Capriate conduce a Crespi d’Adda. Rimane con noi e ci accompagna durante tutta la visita, come a volerci ricordare che, in fondo, il lavoro è ciò su cui è fondato il villaggio.
Ci lasciamo alle spalle il Castello della famiglia Crespi e la chiesa. Percorriamo la via principale della cittadina: sulla nostra destra scorrono, apparentemente infinite, le finestre cieche della fabbrica. Portali ciechi, muti, su di un mondo che possiamo solo immaginare. Un mondo che intuiamo, che percepiamo, vagando tra gli edifici testimoni della storia operaia di fine Ottocento.
I nostri sguardi si riflettono nelle finestre della fabbrica. Ma come, direte voi, dove sono i vetri, ci sono solo muri, il crudo cemento. Ai nostri sguardi interrogativi rispondono cent'anni di storie. Cent'anni che ti entrano nell'anima, basta solo aprire gli occhi, basta solo cogliere i racconti che filtrano tra i mattoni.
Arriviamo di fronte all’ingresso principale dello stabilimento: l’imponente cancellata rossa ci separa dagli edifici che ospitavano la dirigenza, dai capannoni, dalla ciminiera che un tempo veicolava verso l’alto l’estro creativo del villaggio operaio.
Perfettamente al centro della visione prospettica, ecco comparire l’orologio dello stabilimento, proprio alla base, alle fondamenta del suo simbolo principale, la ciminiera.
L’orologio è un simbolo veramente potente, evocativo: l’orologio scandisce le nostre vite, suddivide e frammenta la nostra esistenza, ne attribuisce un significato.
Dalle otto di mattina alle quattro di pomeriggio sei un operaio, sei una piccola parte del cotonificio. Prima e dopo, sei un individuo, con la tua famiglia, le tue emozioni, i pensieri, gli affetti.
Eppure, qui a Crespi d’Adda anche questa parte della vita rimane confinata nel villaggio. Non vi nascondo l’impressione che mi ha dato sostare davanti alla fabbrica e, in generale, vagare per il centro abitato.
L’impressione è quella di trovarsi in un grande esperimento sociale. Una sorta di Grande Fratello, alla stregua della narrazione di 1984. Forse non ci saranno gli schermi, la radio accesa 24 ore su 24, la polizia del partito ad ascoltarvi, quello no.
Semplicemente, tutta la vita nel villaggio è concepita come un’esperienza totalizzante. Lavori qui, mangi qui, i tuoi figli vanno a scuola qui. Cosa faccio appena finito il turno? Ma certo, c’è il dopolavoro! Ti servono generi alimentari? Vicino alla chiesa trovi un comodo spaccio!
Persino la morte non ti separa dal villaggio operaio. Riposerai là in fondo, nel cimitero che la famiglia Crespi ha costruito per te e la tua famiglia.
IL CIMITERO
La lunga strada che dal villaggio porta al cimitero ha un forte significato metaforico: dalla piena vitalità della fabbrica e delle vite che intorno gli scorrono, digradiamo lentamente verso il regno dei defunti.
Accompagnati, quasi incanalati, dai cipressi, il mausoleo della famiglia Crespi ci attrae magneticamente con la sua cupa imponenza.
Una muta piramide di cemento e roccia, totalmente estranea all’architettura e allo stile del resto dell’abitato, quasi a voler rimarcare il netto distacco con tutto quello che la circonda.
Ai suoi piedi, si stendono i ceppi di tutti quelli che hanno dato la vita per la prosperità della fabbrica, grati per l’eternità alla figura, dai connotati quasi divini, che ha dato loro lavoro e, alle loro famiglie, una casa.
Il completamento, la perpetrazione, dell’esperimento totalitario portato avanti dai Crespi: nascita, vita, lavoro e, infine, morte. Tutto tra le “mura” del villaggio operaio.
IL VILLAGGIO OPERAIO E LE VILLE DEI DIRIGENTI
Ci lasciamo alle spalle il tetro cancello del campo santo. È tempo di tornare alla chiesa, dove abbiamo lasciato l’auto, colmi di interrogativi e spunti di riflessione. Ma prima, una breve deviazione: svoltiamo a destra, verso la zona residenziale, verso le ville dei dirigenti.
Eccole lì, isolate rispetto a tutte le altre abitazioni, segno distintivo della loro importanza. Qui risiedeva la classe dirigente dello stabilimento, le menti pensanti.
Nove ville di ampia metratura, ognuna diversa dalle altre, circondate da ampi giardini e alberi ad alto fusto. Non orti, come le case operaie, bensì giardini. Quasi a sottolineare, simbolicamente, la distinzione tra il pragmatismo dei lavoratori della fabbrica e il prestigio della classe dirigente.
Proseguiamo. Le ville lasciano il posto alle abitazioni dei capireparto e, infine, alle casette operaie. Semplici ma dignitose nell’aspetto, erano un tempo destinate ad accogliere, ciascuna, due nuclei familiari.
Il loro aspetto attuale non riflette, purtroppo, quello originario. Le casette furono infatti oggetto di un pesante rimaneggiamento durante il ventennio, che portò alla rimozione delle decorazioni in cotto e all’aggiunta di un parallelepipedo nella parte posteriore, dove vennero alloggiate le latrine, originariamente assenti.
Passeggiando tra le abitazioni, è evidente il pragmatismo, tipico della classe operaia, che qui regnava sovrano. I giardini erano adibiti a orti, le recinzioni erano realizzate con materiali di risulta provenienti dallo stabilimento.
Risaliamo in auto. Le casette, la chiesa, le ciminiere scompaiono lentamente dal lunotto posteriore.
Il villaggio operaio di Crespi d’Adda ci ha spinto a riflettere profondamente sul nostro modo di vedere la società, sul diverso modo di conciliare l’individuo e i suoi bisogni con la collettività, la comunità. Un’esperienza arricchente, che vi invitiamo a provare!
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